Cenni Storici

RICERCA DI NOTIZIE STORICHE

 

L’introduzione dell’olivo in Emilia Romagna sembra sia avvenuta ad opera dei romani. Ne è testimonianza un casuale ritrovamento archeologico avvenuto sulle colline reggiane nel 1977. Una moneta ritrovata durante lo svuotamento di un pozzo ha mostrato con chiarezza che la costruzione in oggetto è riconducibile ad un periodo di ben precisa datazione: trattandosi di un medio bronzo di Tiberio, lo scavo della cavità ipogea risulta riferibile agli inizi dell’Era Cristiana. Il ritrovamento di manufatti, oggetti e monete ha successivamente confermato che la villa risale al I secolo d.C.
Gli ambienti rilevati durante lo scavo hanno permesso, inoltre, di dimostrare che la costruzione doveva appartenere alla pars fructuaria di una fattoria o “villa rustica”. Questo ritrovamento archeologico ha permesso di riportare alla luce un locale che mostra ancora ben chiari i segni distintivi di un frantoio. Venne infatti scoperta una pietra di ragguardevoli dimensioni (cm 120x90x70) lavorata su tutte le facce e saldamente bloccata al terreno con un giro di mattoni. Le incisioni presenti sulla pietra fanno pensare che questa doveva essere stata il basamento di una grossa macchina agricola. Il ritrovamento, nell’ambiente adiacente, dei resti di quattro dolii di media capienza (Fig. 1 (2)), hanno fornito l’ipotesi di quello che poteva rappresentare la pietra: la base di un torchio (Fig. 1 (1)). L’esposizione a sud di questi due ambienti avvalora l’ipotesi che questi locali fossero adibiti, il primo, a frantoio o cella olearia, e l’altro, quello a fianco, a deposito dei “vasi culleari” (panciuti e senza piede). La localizzazione e la struttura di queste stanze rappresenta la realizzazione di quello che si evince nel trattato “De Architetctura” (libro VI – cap. IX) di Vitruvio: “…la cella olearia deve essere collocata in modo da ricevere luce da mezzogiorno, cioè dalle regioni calde: perché l’olio non deve gelare ma anzi affinarsi col calore”. L’ipotesi della presenza di un frantoio viene convalidata dal ritrovamento di un vaso votivo.
Immagine fig 1 bis

Fig. 1 – Villa rustica di Gambarata (Reggio Emilia), I sec. d.C.: base di un torchio (1), resti di quattro dolii di media capienza (2).

 

Altre indagini, di tipo archeobotanico, hanno segnalato tracce di polline di Olea europaea L., risalenti al I a.C. e al V-VI secolo d.C., presso San Giovanni in Persiceto (Bologna).
E’ lecito dunque, ipotizzare che con l’impero romano si è assistito all’inizio della diffusione della coltivazione dell’olivo in Emilia, anche se in modo casuale e sporadico. La mancanza di una sufficiente documentazione sull’estensione della coltivazione dell’olivo in età romana e la nota longevità della pianta non permettono di valutare in maniera adeguata quanti oliveti ancora presenti nell’alto medioevo siano stati piantati al tempo di Roma Imperiale. Diventa quindi difficile determinare con precisione l’epoca in cui è stato introdotto l’olivo attualmente presente nel nord Italia, per cui la conclusione sopra espressa riguardo alla comparsa dell’olivo in Emilia Romagna è da accogliere con questo tipo di riserva.
La ricerca attraverso leggi, editti, bandi, rogiti, inventari ha permesso di ripercorrere e datare le alterne fasi in cui questa coltivazione, ha acquistato o perso rilevanza nella vita delle collettività umane e nel paesaggio agrario emiliano romagnolo.
Tra la prima testimonianza sicura e le successive, intercorrono circa cinque secoli; il ritrovamento di un vasetto in legno di olivo del V-VI secolo presso Bazzano e la provata presenza di oliveti nel riminese nel 541 sono le uniche prove sicure che attestano la presenza dell’olivo in questa epoca. La scarsissima diffusione dell’olivo nella pianura padana in età romana fu dovuta al fatto che l’olio, utilizzato soprattutto come fondo di cottura e come combustibile per l’illuminazione, veniva facilmente trasportato da altre regioni dell’impero. Questa è una possibile motivazione della distanza di ben cinque secoli dalla precedente testimonianza.
La crisi agricola che si ebbe negli anni che intercorsero dalla fine dell’impero al primo medioevo, ha come conseguenza quella di incrementare lo sviluppo locale di questa coltivazione.
Nel medioevo l’olio era principalmente utilizzato per l’illuminazione e per scopi liturgici, mentre per cucinare era diffuso l’uso dei grassi animali, soprattutto nel nord Italia.
L’esame della documentazione alto medioevale relativa all’Italia padana, permette di reperire diversi elementi utili: in un atto notarile dell’ottavo secolo (776) presente nelle carte nonantoliane, si hanno accenni di un oliveto situato nei pressi di Monteveglio, tra il modenese e il bolognese, ed in particolare lo si individua in una località qui detta “Casale Sociolo”, la quale verrà di seguito denominata Oliveto (Pini, 1980). In questo atto notarile (datato 6 marzo 776) il Duca Giovanni da Persiceto trasferiva al monastero di Nonantola la proprietà di alcune terre “in pago Montebelio” (Monteveglio) specificando che la località era “oliveto circumdato”.
In questo stesso territorio la coltivazione dell’olivo fu attestata anche da altri documenti quali, ad esempio, una donazione del duca Orso datata 30 dicembre 789, un analogo atto del vescovo Warino datato 15 luglio 1016 e un documento di donazione da parte di Carlo Magno a favore della Chiesa di Modena. In questo ultimo documento, datato 822, viene chiaramente specificata l’elargizione dell’oliveto sito presso il castello di Monteveglio.
Una carta di livello dell’878 può far pensare alla presenza di un oliveto nel piacentino, in questo documento è infatti previsto un canone di olio, così come il polittico Bobbiese del X° secolo lo faceva supporre nel parmense; in particolare questa testimonianza, se pur frammentaria, ha la particolarità di specificare la produzione di olio di questo oliveto, che si aggira intorno alle 500 libbre.
In questo periodo storico sempre con maggiore frequenza vi sono passaggi di proprietà, a causa del sistematico avvicendamento gerarchico, tipico del Medioevo. I documenti redatti in seguito agli accordi presi spesso rilevano la presenza di toponimi direttamente collegati all’olivicoltura è il caso di Castro Oleriano che viene ceduto al comitato di Parma nel 944. In provincia di Reggio Emilia, nei dintorni di Albinea, si ha una presenza inequivocabile di oliveti, confermata da diverse testimonianze: quella di Enrico II di Germania, in un diploma del 1002 ancora nominato nel 1072 da Papa Alessandro II che conferma al monastero di S. Prospero la proprietà di “S. Maria di Pissignano coll’oliveto attiguo”, che solamente un anno dopo, nel 1073, il vescovo reggiano Gandolfo cita come “S. Maria de Oliveto”. L’attività principale di questi monaci doveva essere la coltivazione dell’olivo, pianta che “abbondava nelle vallate, di Montericco e di Borzano, esposte a mattina e riparate dai venti e dai geli”. Ancor oggi si possono vedere, in queste zone olivi che per secoli hanno fornito prezioso olio alle lampade delle chiese reggiane e rametti ai parrocchiani di Montericco nel periodo pasquale.
Altra località del territorio matildico, in cui si produce olio, è Cortenova nel 1102, inoltre in una carta di precario del monastero di Nonantola del 1115 si citano Castro Oliveto e Corte dei Monti Oliveti.
Un provvedimento del 1136, disposto dall’arcivescovo di Ravenna da cui allora dipendeva la chiesa di Bologna, accordò ai canonici di Santa Maria del Reno il privilegio su tutti i possedimenti di cui essi già godevano nel territorio bolognese, comprese alcune “…vineas et oliveta”.
Pagamenti in olio sono menzionati in alcuni contratti agrari del 1161 relativi al territorio di Montecatone, mentre documenti che risalgono ai secoli XII e XIII accennano alla coltivazione dell’olivo in terreni di proprietà della canonica di San Cassiano (Imola).
L’esistenza di un’attiva olivicoltura nel reggiano è documentata da un atto di compravendita conservato nell’Archivio Capitolare del Duomo di Reggio, nell’atto (n°553) si legge di una vendita “in Vergnano il 29 dicembre 1212, di una terra con ulivi” da parte di Guido fu Marclochi da Borzano. Pellini, nella sua monografia Alberi nella storia di Reggio (1996), scrive che il prodotto derivato dalla frangitura delle olive veniva utilizzato in svariati modi: per la liturgia, la medicina, la farmacopea, l’illuminazione di ambienti sacri, per la lavorazione di tessuti e del sapone. Testimonianze della presenza di questa specie sono ancora oggi presenti nei pressi della Chiesa vecchia di Montericco di Albinea (denominata appunto “Madonna dell’Uliveto”), nei pressi del Castello di Bianello e nella zona di Canossa.
Tra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo si ha probabilmente il raggiungimento della massima diffusione dell’olivicoltura nell’Italia settentrionale, vari atti citano gli olivi di Miserazzano e gli strumenti che venivano usati per estrarre l’olio.
Nel tredicesimo secolo, che l’ulivo fosse coltivato nel parmense, è testimoniato dal fatto che se ne fa menzione al pari di colture risaputamene più importanti: nel “1234 il freddo fa gelare le viti i fichi e gli uliveti”. È proprio il freddo una delle cause dell’alternata presenza degli olivi nell’Emilia; il monitoraggio del clima dal XII al XVII secolo nel bolognese, e successivamente fino ai giorni nostri, segnala il verificarsi di eccezionali eventi climatici (taluni fuori stagione) con particolare riguardo alla temperatura e alle nevicate (Tab. 2).

Tab. 2 – Eventi meteorologici critici verificatisi in Emilia dal XII al XX secolo.

Anno

Descrizione evento

1199

5 – 7 Agosto: fu cosa insolita veder scendere per tre giorni la neve con inestimabile freddo.

1234

22 Dicembre: fu un verno tanto freddo che agghiacciò nelle botti il vino e si seccarono moltissimi alberi e quasi tutte le viti.

Nei territori di Parma nel 1234 il freddo fa gelare le viti i fichi e gli uliveti.

1269

24 Agosto: in questo giorno cadè tanta neve che venne alta due piedi (75 cm).

1344

3 – 4 Maggio: fu gran pioggia che, convertendosi in neve, gagliardamente fioccò con eccessivo freddo.

1359

18 Novembre: nevò sei giorni e sette notti di continuo di maniera che la neve si alzò quattro braccia (250 cm) da terra e molte case e chiese rovinarono.

1380

24 Settembre: cadette tanta neve che venne alta più di due piedi (75 cm) e cagionò estremissimo freddo.

1455

18 Giugno: fu gran freddo e nevò di modo che fece gran danno alli raccolti delle campagne.

1587

6 Giugno: dal cielo cadde neve in modo tale che per qualche ora stette coperta la terra.

1594

14 Aprile: nevò tutto il giorno e la notte ancora e la neve venne molto grossa e grandissimo freddo che fece moltissimi danni alle campagne e particolarmente alle uve e ai frutti de’ quali ne fu carestia.

1608

11 Febbraio: la neve venne altissima che mai più fu veduta tanto ingrossata.

1644

9 Maggio: nevò in modo tale che sopra terra si alzò poco meno d’un palmo (20 cm) e la notte seguente fu ghiaccio e brina che grandemente danneggiarono le campagne e massime le viti.

1709

Gennaio: per lo freddo (-20°C), oltre la gran quantità di viti si seccarono di più infiniti piedi di nuce, moltissimi di fico, perciò quest’anno se ne sono veduti pochissimi e questi assai cari, come altresì le olive, i melaranci, i cedri e simili agrumi. Il freddo durò 16 giorni tale che gelò tutti gli olivi, noci e anche querce, e un’infinità d’altri alberi e tutte le viti del reggiano, guastallese, mantovano e una parte del parmigiano.

1829

12 Febbraio: la galaverna (-9 °C) accompagnata da un “gran nevone” che causò seri problemi per il traffico e i commerci cittadini e gravi danni all’edilizia e all’agricoltura.

1830

Gennaio (-16.9°C) e Febbraio (-11.6°C).

1858

Febbraio (-10.4°C)

1893

Gennaio (-11°C)

1894

Gennaio (-10.6°C)

1929 – 1930

Inverno (-22°C): dopo il rigido inverno nessun ulivo di età matura perì,quantunque molti altri alberi fruttiferi perissero sotto la mala influenza di quella dura stagione; viceversa le piccole e giovani pianticelle si disseccarono a piè di terra rigermogliando poi per la maggior parte nella successiva primavera, contro ogni aspettazione dei nostri inesperti agricoltori che le credettero irrimediabilmente perdute e ne atterrarono non poche, tanto che fu d’uopo in seguito impedirlo anche con severe minacce.

1947

(-11.6°C)

1956

Febbraio (-20.1°C)

1968

(-10.4°C)

1985

Gennaio (-20°C)

Nel 1258, in uno statuto della parmense repubblica veniva ordinata la messa a dimora, in tutto il territorio di montagna, dell’olivo. Il capitolato imposto dal podestà Giberto Da Gente elencava anche tutte le località in cui gli olivi dovevano essere coltivati.
In seguito a questo capitolato Bianchedi, nel 1880, scrive che “ dopo qualche lustro si videro le coste di molti dei nostri colli floride e popolate d’olivi che vi prosperarono per oltre due secoli”.
Nel 1300 due Autori bolognesi, Pier De’Crescenzi e Paganino Bonafede, scrivono due trattati agronomici di rilevante successo ed entrambi dedicano particolare attenzione all’olivo. Paganino Bonafede, nel suo “Thesaurus rusticorum” del 1360, dà un’ampia e originale descrizione della pratica dell’innesto come metodo di propagazione ma sostiene che per l’olivo è preferibile la propagazione per talea, inoltre Paganino dà consigli anche sulla potatura e sulla concimazione. Ed infine, se è vero quello che scrive come conclusione del suo poemetto, che tutte le cose da lui scritte sono state provate, corrette e certe, c’è da ritenere che a Bologna e nei dintorni vi fossero i suoi olivi. Per tutto il medioevo la valle del Reno fin verso Vedegheto fu “coperta di oliveti”.
Un documento del 1387 testimonia che in Albinea (ad Puzalium) si affitta per cinque anni una terra “casamentiva, clausurativa, vineata, olivata, figata”, cioè una casa, chiusa con vigna, olivo e fico. Sulle colline reggiane compaiono, in questo periodo, terreni coltivati a Ulivo e Fichi; una di queste località è addirittura chiamata Figarium “una pecia terre figate clausurate et olivate”. Nel 1390 si danno a mezzadria per un anno, rinnovabili, sei bif (una “bif” è un’unità di misura emiliana corrispondente ad una bifolca, cioè alla quantità di terra che un bifolco (contadino) riesce a lavorare in un giorno, pari a circa 1/3 di ettaro. Oggi la bif. è stata sostituita dalla “biolca”, il cui valore è simile alla bif., ma con approssimazione diversa a seconda della zona.) di terra lavorativa “olivata figata in loco dicto ad Figarium”, nel documento viene specificato che “il mezzadro darà metà del grano, olio e fichi, ricevendo cinque fiorini in auxilium laborandi”.
Esempio di quella alterna fortuna alla quale questa coltura è stata soggetta nel tempo, è la sorte di tre oliveti posseduti dal monastero bolognese di San Procolo alla fine del duecento, (due situati sulle colline immediatamente a sud della cinta urbana, una nella zona collinare di Casalecchio dei Conti); a neppure un secolo di distanza di essi non restava più nulla se non un “olivetum satis desolatum et triste”. Simile sorte tocca ad un oliveto situato nella valle del Savio, che nel XVI secolo era ormai scomparso per lasciare posto a vigneto e selva.
Nel periodo rinascimentale l’olivicoltura di tutta l’Emilia subì comunque un forte declino sotto il combinato effetto di vari fattori: da un lato le avversità climatiche e il crollo demografico provocato da pestilenze e denatalità; dall’altro la rivoluzione dei trasporti e dei noli. Inoltre la disaffezione degli agricoltori attratti dalle più facili e remunerative coltivazioni di pianura, indirizzò gli abitanti a concentrarsi nei centri maggiori, portando ad un progressivo declino delle produzioni locali di olio, pur mantenendosi costante il fabbisogno che ora poteva essere coperto dagli scambi di mercato.
Di conseguenza le notizie storiche diventano sempre più sporadiche e l’olivicoltura viene citata nelle opere di pochi Autori come l’Alberti nel 1551, che raccontava di olivi nel bolognese (verso Imola), i quali producevano una specialità di Bologna. Tali olivi veniva descritti dall’Autore come “quegli olivotti tanto stimati confettati da ogni lato d’Italia e massimamente a Roma”.
Ed infine ve ne sono accenni da parte del Bussato (1578), del Garzoni (1584) e dal Tanara (1644), questo ultimo attesterà il completo abbandono dell’olivicoltura bolognese, visto lo spostamento dell’agricoltura verso la pianura. Nel 1688 in uno schizzo a penna viene raffigurata la presenza di olivi tra la chiesa di S. Maria di Monteveglio e la nuova strada detta del Calvario (Fig. 2).

Immagine fig 2

Fig. 2 – Appezzamento olivetato (5) compreso tra la vecchia e la nuova strada detta del Calvario in territorio di Monteveglio.

L’inverno del 1709 fu caratterizzato da un’eccezionale gelata che, secondo Calindri, provocò la morte di oltre 5000 olivi nel bolognese.
Nel territorio di Reggio Emilia, dalle mappe del 1720 di Andrea Bandoli apprendiamo che il canale di Secchia azionava in città 10 mulini e serviva 31 filatoi e 2 galgarie. Nelle galgarie, presenti già nel 1300, si utilizzavano le galle delle querce per la concia e tintoria delle pelli. Alcuni di questi mulini (Fig. 3) venivano invece utilizzati per la molitura di “prodotti di alberi”, e più precisamente castagne e olive.

Immagine fig 3
Fig. 3 – Mulini presenti sul territorio reggiano.

Tra il 1772 e il 1785 la produzione media di olive in provincia di Bologna era stata di 6000 libbre all’anno, aveva raggiunto le 8000 libbre nel 1829, ma nel 1837 si assistette ad un crollo della produzione (3800 libbre). Molto interessante è l’esistenza, nel 1831 a Bologna, di tre “mole da olio” (tre frantoi). Anche nel piacentino fino a duecento anni fa esistevano dei frantoi, ne è testimonianza un documento del 1821 del Catasto Napoleonico conservato presso l’Archivio Storico di Piacenza nel quale, per motivi fiscali, vi sono elencati tutti i beni del Comune di Nibbiano e dove si annovera l’esistenza di almeno un torchio da olio a Trevozzo.
Nel reggiano, più precisamente nella zona di Albinea (castello di Bianello), intorno al 1850 si ha l’introduzione di olivi da impiantare intorno al castello come risposta all’aumento del prezzo dell’olio da parte del Duca di Pontremoli.
Per ultima si annovera l’opera dell’Ingegnere Camillo Bianchedi che nel 1880 scrive, in chiave lodevolmente propositiva, L’olivo sulle colline parmensi, con l’intento di poter ripristinare questa antica coltivazione di cui sono rimasti come testimonianza “olivi sparsi e non pochi anche prosperosi e secolari, accennanti indubbiamente ad una più estesa florida e propizia coltivazione di quella pianta”.
Ancora oggi la toponomastica mantiene vive le memorie e la traccia che gli olivi hanno lasciato nel tempo e che successivi avvenimenti hanno cancellato; ad esempio nel parmense esiste una valle denominata Olivelle, e presso il ponte del Rio Fabiola esiste un’altra località denominata Olive.